Intervista a mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

Foto di Guglielmo Francavilla
Foto di Guglielmo Francavilla

di Michelangelo Nasca e Maria Lo Presti

Per il terzo appuntamento della rubrica “Presbiteri” – che raccoglie le emozioni, gli impegni, le fatiche e le gioie del ministero sacerdotale – abbiamo incontrato mons. Corrado Lorefice, il nuovo arcivescovo chiamato da Papa Francesco a guidare l’arcidiocesi di Palermo, per rivolgergli – a distanza di pochi mesi dalla sua ordinazione episcopale – un’intervista, che lo stesso Arcivescovo ha considerato esclusiva.

 

Qual è l’aspetto più bello, il dono più grande dell’essere presbitero?

«Da questo punto di vista, in quello che dirò sarò un po’ autobiografico, e farò riferimento a quella che è stata la mia esperienza di sacerdote e di come l’ho vissuta fino ad oggi. A mio parere il dono più grande dell’essere presbitero è quello della chiamata, che arriva dentro un contesto di normale vita ordinaria. La chiamata ti raggiunge là dove sei e per quello che sei, in un contesto umano, familiare, ecclesiale o parrocchiale. Del resto, secondo la logica tipica dell’incarnazione, Dio entra nella vicenda umana e, a poco a poco, là dove si vive la vita ordinaria e di fede, comincia a realizzare un disegno e a tessere i termini di una vocazione. Il dono della chiamata in se stesso emerge dentro la concretezza della vita che è anche parte dell’umano, e come ogni realtà umana porta i segni della grandezza e quelli della fragilità. Entrando progressivamente nella vita di un uomo, il Signore disegna la figura di chi deve poi diventare segno della Sua incarnazione. Pertanto è la grazia di Dio e il suo Vangelo che ti raggiungono e prendono carne nella tua vita, la bella notizia che ti incontra là dove tu sei, e a poco a poco ti cambia, ti trasforma, assume l’umanità. Una feritoia, questa, attraverso la quale – persino nella nostra fragilità – il Signore può, progressivamente, fare di te un evangelizzatore, un testimone, un uomo che riesce a dire ad altri ciò che è accaduto nella propria vita. Il sacerdote, poi, deve radunare la comunità ecclesiale che gli è stata affidata, non tanto attorno ad alcune attività ma attorno a quell’unica grazia e ricchezza che il Vangelo ci ha donato, che ha cambiato la nostra vita, che attesta che il Signore è veramente morto e risorto, e che diventa il senso della vita e delle relazioni umane. Il dono più grande nella vita di un presbitero è, dunque, il Vangelo stesso, che poi egli è chiamato a servire, che diventa esperienza diretta: una bella notizia che ti cambia l’esistenza».

 

Ora che è vescovo come vive il cambiamento nelle modalità di relazione tra vescovo e presbiteri?

«Certamente, ancora sono ai miei primi passi. La cosa che avverto di più, senza ombra di dubbio, è che mi sento ancora fortemente e fraternamente legato ai miei confratelli presbiteri, che restano e rimarranno sempre confratelli. Credo che per un vescovo questo debba essere essenziale, il fatto cioè che sia parte integrante di un presbiterio, e per questo si senta parte del presbiterio e legato fraternamente ai confratelli. Pertanto non ci potrebbe essere una relazione ministeriale specifica – rispetto al ministero episcopale – se non ci fosse prima la consapevolezza di questa condivisione limpida. Da questo punto di vista, spero tanto che anche il mio servizio nella chiesa palermitana, soprattutto nella mia relazione con i confratelli presbiteri, sia realmente e sensibilmente percepibile. Il fatto di sentirmi dentro questa specifica relazione, mi permetterà anche di essere vescovo e di governare nel senso evangelico voluto da Cristo. Credo che ogni vescovo sia chiamato a questa prospettiva, e la via da percorrere è quella di un governo fraterno e corresponsabile! Il vescovo non è colui che deve esercitare un ruolo di autorità secondo i criteri di questo mondo; come direbbe Gesù «voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve» (Lc 22,26). Così dicendo, più io recupero l’appartenenza al presbiterio, e più potrò comprendere anche quello che è il servizio di un governo fraterno, permettendomi di instaurare una relazione di corresponsabilità e di discernimento comune, e offrendomi l’opportunità di guardare ai bisogni della nostra chiesa locale attraverso la dimensione collegiale. Certamente c’è anche una responsabilità che spetta ed è tipica del servizio episcopale, ma non è una responsabilità che esula da quanto detto prima, anzi: tutto nella chiesa deve dire anche questa dimensione collegiale e sinodale. La stessa struttura gerarchica della chiesa è al servizio della comunione e del convergere».

 

Quali sono le attese pensando al seminario, ai presbiteri e alla Chiesa di Palermo?

«Io per ventun anni mi sono occupato della formazione dei nuovi presbiteri, come vicerettore del seminario di Noto, e una delle prime cose che ho fatto qui a Palermo è stata proprio quella di conoscere e stare vicino ai seminaristi. Pensando al seminario, ai presbiteri e alla Chiesa di Palermo, le attese sono per certi versi molto chiare. A mio parere – come già dalle prime battute di questa intervista – noi dobbiamo andare verso la costruzione di una chiesa che si pensa in termini di sacramento, in mezzo agli uomini e alle donne che sono compagni di viaggio. Da questo punto di vista, il sacerdote è colui che deve ripensare se stesso a partire da questa identità sacramentale. Il prete – soprattutto dentro una comunità – non può che essere segno di Colui che è venuto non per essere servito ma per servire; egli deve radunare la comunità ecclesiale attorno alla Persona di Cristo, alla sua Parola e al suo Corpo. Il prete è l’uomo che convoca la comunità eucaristica, e la riunisce perché ha la consapevolezza che a convocare sia il Signore. Volutamente, nello stemma episcopale che mi è stato chiesto di realizzare, ho voluto raffigurare il catino e l’asciugatoio, facendo riferimento a Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli; e proprio per questo nella rappresentazione dell’immagine ho voluto poi disegnare un tempietto avvolto da foglie verdi, per sottolineare una chiesa viva fatta da pietre vive che nasce dalla memoria e dalla continuazione di questo gesto (la lavanda dei piedi) compiuto da Gesù. Una chiesa pensata in tale prospettiva ha tre fonti da cui è possibile attingere: la Parola di Dio, il Pane eucaristico e i Poveri. Quindi, le attese per me dicono questo: un prete è inviato perché una comunità cristiana si possa pensare in questi termini, incarnata nella storia, condividendo ciò che la connota, il Vangelo e la memoria di Gesù che ha dato la vita per noi, e che da ricco che era si fece povero. Una comunità cristiana che custodisce e tiene alta la testimonianza dell’amore secondo le parole e l’esempio di Gesù, soprattutto verso i più deboli e i più poveri. Non potrei avere altre prospettive, altre attese, se non questa».

 

Qual è la sua visione di ministerialità dei laici nel particolare contesto storico che stiamo attraversando?

«Io credo che il laico non sia il subalterno del prete. Il termine stesso che avete utilizzato nella domanda (ministerialità) ci pone dentro una visione di popolo di Dio. Basterebbe riprendere in mano la struttura della Lumen gentium, per capire chi sono i laici nella chiesa. Rispetto allo schema preparatorio di questo documento, il Concilio Vaticano II ha fatto una scelta molto chiara, parlando prima del popolo di Dio e poi della costituzione gerarchica della chiesa. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un laicato che abbia sempre di più questa consapevolezza. Per cui è chiaro che se ripensiamo la chiesa come popolo di Dio, e la ripensiamo soprattutto come chiesa eucaristica, è lì che si gioca a mio avviso la maturità e l’identità di una comunità cristiana: quando siamo nell’Eucaristia c’è tutta la chiesa e tutto ciò che essa è chiamata a fare. La Chiesa nell’Eucaristia è già segno e anticipo della nuova creazione, per cui penso che dobbiamo realmente portare avanti questo principio eucaristico dell’esperienza ecclesiale. Tra l’altro conosco la bella tradizione della Chiesa palermitana e ciò che dopo il Concilio, negli anni ottanta, ha espresso in termini di maturità e di consapevolezza del laicato. Io penso sempre di più ad una chiesa che sia ministeriale, penso a un laicato adulto nella fede, e penso alla bellezza di una relazione tra preti e laici con un respiro ampio. Il prete è colui che in una comunità è costituito per far crescere in tutti la consapevolezza del sacerdozio battesimale, la profezia e la regalità vera del popolo di Dio».

 

Quanto è importante per un sacerdote la formazione teologica? E quali altri aspetti non possono essere trascurati?

«Da quando sono prete ho sempre insegnato teologia. A mio parere la formazione teologica è essenziale, oggi più che mai. Parlando ai seminaristi e ai diaconi ho ricordato che lo studio serio e appassionato della teologia è l’altra fonte a cui noi dobbiamo attingere la spiritualità, la spiritualità in senso ampio, oltre a quella presbiterale. Non penso di dire cose assurde se ritengo che così come la preghiera diventa sorgente da cui attingere la relazione personale con il Signore, alla stessa stregua lo è la teologia: una teologia vissuta con questo tipo di sensibilità nutre la mente e, nello stesso tempo, riscalda il cuore. La formazione teologica è fondamentale. Oggi, inoltre, c’è un’obbedienza alla storia di cui tenere conto, e un sacerdote non può non avere una robusta cultura teologica e umanistica. L’altro aspetto che nella vita di un sacerdote non può essere assolutamente trascurato è la capacità di saper leggere la storia, perché la storia è un luogo teologico; il Concilio ci ricorda nella Gaudium et spes che non si potrebbe comprendere la stessa Rivelazione senza ascoltare i vari modi di parlare del nostro tempo. La storia va interpretata alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana. Oggi un prete dev’essere dentro la storia, deve conoscerla, deve essere capace di leggerla e di interpretarla, perché è un luogo teologico. Pertanto, quando parliamo di formazione culturale e teologica, diciamo anche questo aspetto, l’essere cioè incarnati dentro la storia. Questa obbedienza alla storia ci fa guardare poi tutti gli avvenimenti con gli occhi del Vangelo, con gli occhi di Dio, e il fatto che Dio assuma il mondo e lo faccia suo non è un aspetto marginale per la nostra vita; l’Incarnazione è, infatti, abbassamento e assunzione. Il prete, in modo particolare è colui che assume la storia e anche le ferite e le vittime della storia. C’è, infatti, un compimento del Regno che siamo chiamati a custodire nella nostra memoria e nella nostra attesa; non un’attesa alienante, ma capace di farci assumere la storia, per portarla verso il compimento della sua trasformazione. Il prete, infine, deve imparare a leggere la storia a partire dalle cose che spera».

 

Nella chiamata e nella formazione alla vita presbiterale come s’inserisce la scelta del celibato?

«Questo è un grande tema, che mi ha sempre accompagnato e sedotto. Il celibato è una grande ricchezza, soprattutto quando è realmente una chiamata a cui si risponde con libertà e consapevolezza. In fondo, il celibato è ciò che permette a un prete di poter realmente esprimere nella sua vita la bellezza di un cuore indiviso. Il celibato – in un’immagine che a me piace sempre ricordare – non dev’essere estrapolato dall’altra realtà meravigliosa che per noi cristiani è la sponsalità. Tante volte parliamo del celibato, ma non sempre in termini di celibato sponsale; di contro, anche quando parliamo di sponsalità non dobbiamo dimenticare il valore del celibato, perché a mio parere si tratta di un’unica chiamata. Io sono stato sempre molto vicino a chi ha ricevuto il dono della vocazione sponsale, ho accompagnato e accompagno – da quando sono sacerdote – tante famiglie, coppie di sposi e fidanzati. Questa è la bellezza della vita cristiana! La vita cristiana sta sotto la cifra dell’amore, del cuore indiviso, con tutta la mente, con tutte le forze, con tutto te stesso. Per cui c’è veramente una vita che è fecondata e riempita dalla presenza del Signore. Fondamentalmente, il celibato non riguarda solo la castità sessuale, quello che deve essere vergine è il “cuore”. Il risvolto della verginità non può che essere un risvolto anche sponsale, e la sponsalità (ecco la bellezza della reciprocità del ministero verginale e del ministero sponsale) viene arricchita da chi nella comunità ricorda questo cuore indiviso, così come un prete viene arricchito dalla condivisione di vita che i coniugi sperimentano nell’amore sponsale, donandosi e facendo spazio all’altro (la storia di una famiglia, la moglie, i figli), anche attraverso un rinnegamento totale, perché l’altro sia, l’altro esista. Analoga ricchezza è quella che ricevono la coppia e la famiglia dalla testimonianza di chi è celibe, avendo la possibilità di capire e di essere quasi coinvolti in una sorta di meraviglia, per il fatto che un uomo e una donna possano realmente amare Dio con un cuore indiviso e la fecondità di un cuore che offre il primato a Dio. Oggi ci si gioca a questo livello! Pensate che cosa significhi l’annuncio della vocazione verginale anche alle nuove generazioni, in un periodo storico dove si viene assoggettati alla manipolazione dell’altro, in una voracità di brama che ci fa raggiungere l’altro e che ce lo fa profanare, non solo nel corpo ma anche nella sua essenza! La sessualità, invece, non è qualcosa di negativo ma è anzi il linguaggio dell’amore, accadimento della relazione che riconosce l’altro e non lo strumentalizza. Pensate, oggi, quanto possa essere importante l’annuncio della scelta verginale, soprattutto presso le nuove generazioni. Il problema è, piuttosto, un altro: arriva questo tipo di messaggio? E noi viviamo in questo modo il celibato? Ecco perché è importante che ogni celibe comprenda la dimensione sponsale, così come è importante che gli sposi comprendano la dimensione verginale, e la testimonianza che un celibe può offrire in seno alla famiglia. L’impostazione della vita, oggi, gioca invece al ribasso! Mi piace utilizzare – in conclusione – l’immagine della medaglia che contiene un duplice aspetto: l’unica chiamata all’amore non può non essere, infatti, contemporaneamente verginale e sponsale. Gli sposi e i vergini, nella Chiesa, sono una ricchezza, e si sostengono a vicenda!».

 

I laici, talvolta, tendono a considerare esclusiva, o addirittura a privatizzare, l’amicizia con i propri sacerdoti. Dov’è l’errore?

«Rispetto alle cose che abbiamo detto prima, qui il rapporto è falsato già a monte. D. Bonhoeffer direbbe che si è instaurata una relazione psichica e non c’è una relazione nello Spirito. In questo caso non è possibile riconoscere nessuna relazione spirituale, ma solo patologia! Nella comunità cristiana esistono relazioni nello Spirito, se si rimane incagliati in relazioni psichiche non c’è Vangelo, non c’è cristianesimo!».


“Ricevi il pastorale segno del tuo ministero di pastore, abbi cura di tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo ti ha posto come “servo”… come vescovo a reggere la Chiesa di Dio”. Nel giorno della Sua ordinazione episcopale, il card. Romeo prima pronunciò la parola “servo” e poi corresse con “vescovo”. Si trattò di un semplice errore?

«Nella Liturgia l’artefice è lo Spirito Santo, è Lui che suggerisce! Ti ho posto come servo! Se prendiamo i Vangeli è la stessa cosa: servo e pastore. Il pastore, come riportato nel Vangelo di Giovanni al capitolo 10, dà la vita per il proprio gregge. Giovanni, poi, – nel testo del suo Vangelo – non narra l’istituzione dell’Eucaristia ma quella della lavanda dei piedi; nel segno anticipa la realtà della donazione sulla Croce, come colui che è testimone e quindi servo per tutti. Il servo è colui che rende un servizio, e Lui rende un servizio radicale, offrendo in sacrificio persino la sua stessa vita. Nella teologia, il vescovo è stato sempre configurato a questa particolare immagine evangelica, ed è Gesù ad offrirci la misura della vera autorità. Gesù stesso – nel Vangelo di Luca – ci offre questa lettura, proprio nel contesto della istituzione dell’Eucaristia. Luca, infatti, sposta subito dopo la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia, la discussione che sorge tra i discepoli su chi fosse tra loro il più grande, e Gesù risponde: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22, 25-26). Dunque è chiaro che tutta la teologia del sacramento dell’Ordine non può che abbeverarsi a questa fonte, ed è proprio questo il vero servizio che viene richiesto. Il sacramento dell’Ordine, nella comunità cristiana, deve assicurare la comunione attorno a questo fatto preciso: che il Signore ha dato la vita per noi! Per questo i cristiani riattualizzano le parole di Cristo: «Fate questo in memoria di me». A tal proposito mi hanno sempre colpito due espressioni riportate nel Vangelo di Giovanni, che rivelano un dettaglio interessante. Gesù, nell’episodio della lavanda dei piedi dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15), e poi «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Pertanto, Gesù non ci ha comandato di celebrare un mero rito, ma di fare memoria di Lui che dà la vita. I cristiani sono coloro che su tali presupposti fondono la loro esistenza, per questo celebrano l’Eucaristia, perché essa è memoriale e quindi energia cristica che continuamente rigenera la nostra umanità e le nostre comunità, perché possano annunciare la passione, morte e resurrezione del Signore».


Quali suggerimenti sente di dare ai giovani che s’interrogano sulla vocazione all’amore di Dio?

«Quello che io suggerisco ai giovani è di poter fare un’esperienza ecclesiale, vivere la bellezza dell’appartenenza alla Chiesa che si fonda sulla comune chiamata battesimale, perché è lì che il Signore ci chiama. Essa è il contesto ordinario dove noi apprendiamo la chiamata cristiana, come chiamata all’amore e al dono totale di sé; ed è in tale contesto che ciascuno di noi, a poco a poco, può comprendere quale deve essere concretamente il suo ruolo nella chiesa, e quindi la ministerialità specifica che gli permetterà di realizzare l’unica chiamata: o sposato o celibe, la chiamata è una. Questo serve all’edificazione dell’unica chiesa, non c’è una vocazione migliore rispetto alle altre. Non ci potrebbe essere una comunità cristiana senza famiglie cristiane, e non ci potrebbe essere il mio sacerdozio se non ci fosse stato il sacerdozio comune di mio padre e di mia madre (che stanno per celebrare sessantun anni di matrimonio): sono maschio e femmina, Salvatore e Clementina, due mondi, due sensibilità, due psicologie diverse che ci hanno testimoniato che è possibile stare insieme per sessantun anni, attraverso un impegno umano e soprattutto con la comune fede che hanno vissuto e che ci hanno trasmesso. La comunità cristiana, oggi, ha bisogno di persone capaci di sperimentare questo tipo di sensibilità ecclesiale».

Intervista integrale pubblicata sulla rivista “Theofilos” (Anno 2 n. 1) della Scuola Teologica di Base “San Luca Evangelista” di Palermo